venerdì 3 ottobre 2014

"We've met before, haven't we?" : David Lynch, Bologna (.30.IX.14.)


Bologna, Piazza di Porta San Donato, ore 12.
Un paio di ragazzotti in giacca e cravatta -stile "Reservoir Dogs"- ci consegnano una manciata
di braccialetti gialli, impossibili da sfilare una volta indossati, per poi scortarci su un pullman noleggiato appositamente per noi. "Tenete d'occhio l'autista", ci dicono. Un'affermazione sulla quale interrogarsi per tutta la durata del viaggio, magari lanciando a intervalli regolari occhiate nervose al collo taurino del conducente. Arriviamo inaspettatamente illesi alla meta, in piena periferia bolognese, dopo appena dieci minuti di viaggio e, ad aspettarci, troviamo gli stessi ragazzi di prima. Fieri, impettiti. Impeccabili, come prima e sospetto "come sempre". Ci conducono con la stessa eleganza di cui sono portatori sani all'interno di un'imponente struttura di vetro, acciaio e cemento, über-moderna e avanguardista (il MAST, appunto) e mentre lo smoking biondo ferma le auto per permetterci di attraversare la strada mi sento molto simile ad una pecora. Quella in formaldeide di Damien Hirst.


All'ingresso ci controllano le trappole che abbiamo al polso e attraverso un ascensore di vetro über-veloce (tanto veloce che rimpiango la corsa in pullman) giungiamo ad un rinfresco chiccosissimo e completo di tutto, anche di mini-burger bio-vegan per i damsiani e i giornalisti a km 0. Tra la folla di studenti denutriti noto il sindaco, che trangugia mini-cornetti salati e beve succhi di frutta. Veniamo costantemente soccorsi da ragazze über-cortesi in tubino grigio, mentre cestini-umani ci liberano dal fardello dei piattini (rigorosamente eco-sostenibili) e dai bicchieri usati. Consegnano -a chi le richieda- cuffie per la traduzione simultanea ed io, già intontito da una discreta quantità di pizzette, penso: "A Lucca è stato abbastanza bello, ma non così bello! C'era una traduttrice e non le cuffie ad personam. E la traduttrice, a Lucca, ha usato termini come "scaturAre" con la "A". Inoltre dovevi spostarti a piedi, nessuno ti caricava su un bus, come per le gite scolastiche. Sì, qui bolle in pentola qualcosa di bello-bello".





Prendo posto nell'auditorium, solo dopo aver consegnato tutti i miei averi, sotto gentile intimidazione, ad una signorina sprovvista di tubino grigio ma completa di tailleur über-chiccoso; chiccoso come il MAST. Dopo pochi minuti si accomoda anche qualche professore del DAMS, il presidente della cineteca e, ovviamente, il sindaco, finalmente sazio. Un tubino grigio-biondo ci annuncia che Lynch arriverà tra pochi minuti. Ci ordina di spegnere i cellulari, di restare ai nostri posti, di non scattare fotografie, di non produrre dagherrotipi e ci dice solenne che non ci sarà la possibilità di intervenire o di fare domande. "Ohibò, a Lucca di dibattiti ce ne sono stati" -penso- "ma sicuramente oggi ci sarà un mediatore. Si occuperà lui di tutto. Magari sarà proprio il presidente della cineteca!" Mentre rimugino, la signorina bionda in tubino, che si rivela essere la traduttrice, annunzia trionfante l'ingresso di D.L., che viene accolto da un fragoroso applauso. Mi sembra sinceramente toccato dall'accoglienza, nonostante sia ormai ampiamente abituato ai bagni di folla.

Bilancio.
Ogni fan di Lynch, ogni seguace, ogni adepto, sa benissimo che al regista non piace discutere troppo dei suoi film. Non gli piace spiegarli, non gli piace svelarli, ma parla volentieri degli attori, dei produttori, di come gli è saltata in mente un'idea. Gli piacciono le idee e come vengono fuori. L'approccio, definito in modo davvero spicciolo, è: "sono MIE pippe mentali, voi non potete capirle e io non mi affanno a spiegarvele ma, fidatevi, per me hanno un senso". A me sta bene. Mi piace, non faccio finta di capirlo, ma mi appassiona da anni. Più o meno da quando ne avevo quattordici.
Tutto ruota attorno all'incomprensibile e ci si lascia immergere spontaneamente in esso da questo gigante visionario, consapevolmente suggestionati.

Analisi.
A Lucca, appena un giorno prima, gli è stato consegnato un premio alla carriera (e sul palco era presente Roy Menarini, docente del DAMS, tanto temerario da fargli la domanda giusta al momento giusto), lo scorso anno è uscito il suo secondo disco, due mesi fa le scene inedite di Twin Peaks, nello stesso luogo dove ci trovavamo noi e lui (in quel preciso momento, su suolo petroniano!) veniva ospitata la sua mostra "The Factory Photographs". Il MAST -o chi per esso- cos'ha scelto di organizzare? Visione di "Elephant Man" con introduzione. "The Elephant Man" è uscito nel 1980. Io l'avrò visto -con piacere- una decina di volte. Tra l'altro è anche il film di Lynch che necessiterebbe meno di "spiegazioni" o aneddoti: la trama e l'approccio sono piuttosto tradizionali rispetto a un "Mulholland Drive" o a "INLAND EMPIRE". Inoltre Lynch NON "introduce" i suoi film. Lo dice ai talk show, nelle interviste, nelle conferenze e negli extra dei DVD... ed è la prima cosa che dice anche oggi, di persona, casomai qualcuno non l'avesse intuito.


Ovviamente "La Repubblica" è un giornale e in quanto tale non può riportare le cose accadute sic et simpliciter: non sarebbe interessante. Sul palco del MAST Lynch non pronuncia soltanto la frase che sta facendo il giro della rete. Ci prova, con un po' d'imbarazzo, ad "introdurre" il film. La signora bionda in tubino ha un inglese che mi fa rim
piangere lo "scaturAre" della traduttrice di Lucca, che tutto sommato era un errore di distrazione e, ammettiamolo, chi non ne fa nella vita. Non c'è nemmeno una sedia sul palco, così nessuno lo invita a sedersi. Con l'imbarazzo di cui sopra, ci dice come e quando gli è balzata alla mente l'idea di girare un film su Joseph Merrick. Ci elenca un po' di informazioni e ci parla degli attori con cui ha avuto a che fare. Punto. Sei minuti, forse dieci. Nessuno gli rivolge una domanda e, dunque, ci saluta, cortese come sempre. Pochi, a questo punto, hanno intenzione di guardare un film che hanno già visto plurime volte.





Esco, con l'intenzione di visitare ancora una volta la mostra sulle fabbriche (quest'ultima l'avevo vista a Londra lo scorso Febbraio e mi era piaciuta moltissimo), recupero il mio zaino dalla signorina in tailleur e noto Mr. Lynch che fuma all'esterno dell'edificio, dietro una porta di vetro. Aspetto pazientemente che finisca e lo raggiungo. Mi sorride, mi chiede perché non stia guardando il film. Gli spiego il perché e ridiamo. "Ah-ah-ah", fa lui. "Ah-ah-ah-ah-ah", faccio io. Mi scappa qualche "ah" in più, ma è l'emozione. Mi chiede se per caso ci siamo incontrati prima -e giuro che me lo chiede esattamente così: "We've met before, haven't we?"- ed è vero, ci siamo incrociati a Lucca. Dico qualcosa, non ricordo bene cosa, si fa una chiacchieratina, ma in un inglese migliore del tubino grigio-biodo, così mi firma l'LP di "The Big Dream". Intanto una massa di studenti ci accerchia per ottenere le stesse sacrosante cose: una stretta di mano, un autografo. Potete biasimarci? Resto lì, stretto tra il regista e la folla: Lynch mi chiede in prestito il disco per appoggiarci i fogli che dovrà autografare. Il suo sguardo è sereno e stanco: accontenta tutti e sorride di rimando. Penso che sia invecchiato davvero bene. Non posso smettere di guardargli i capelli: "Come farà a tenerli su così?" . Nella contenuta confusione generale lo immagino allo specchio, la mattina, mentre viene pettinato da Isabella Rossellini e "laccato" da Laura Dern, col giusto sottofondo musicale. Mi ricordo di chiedergli qualcosa ogni tanto e di giocarmi qualche battutina arguta quando il brusio non sovrasta troppo la mia voce, lui sorride e mi risponde sempre con cortesia estrema. Gli passo qualche DVD e qualche locandina da parte delle persone che sono parecchio distanti: mi sposterei per fargli spazio ma mi è impossibile. Sono letteralmente schiacciato... e poi ha ancora il mio disco. Però va benissimo così: sono felice.
È tempo di andare: D.L. mi restituisce ciò che mi appartiene, mi ringrazia, anche se non dovrebbe, e ci scattano anche una foto.
Sogno che gli sono simpatico.







"Lynch a Bologna delude tutti"? Quando ho letto questa frase ho pensato al tempo che ci ha dedicato fuori dall'auditorium, paziente e col sorriso sulle labbra, e a ciò che l'organizzazione aveva imbastito pur di fargli calcare il suolo bolognese. Da una situazione disperata ho ottenuto ciò che non avevo sperato in anni di sincera devozione e di cofanetti e locandine sotto l'albero di Natale, tutto grazie alla cortesia e alla gentilezza estreme di un uomo che ho sempre visto irraggiungibile. Per tutto il resto c'era il Lucca Film Festival... e una "lezione di cinema" che non dimenticherò mai.








sabato 11 maggio 2013

Fedele alla Linea: Bologna (.11.V.13.)

Ho amato il fatto che "Fedele alla Linea" non fosse un documentario ma una conversazione. Ho amato soprattutto il fatto che non spiegasse, che non chiarisse nulla riguardo al personaggio Ferretti di cui si discute da anni in un unico asfissiante, opprimente modo. Di certo, l'anteprima di ieri alla Cineteca è stata conferma di un m.o. tutto italiano. Il cinema strapieno, le file alla cassa composte da ragazzi più o meno giovani (molti dei quali sfoggianti creste e tagli "mohawk"). La sete di CCCP sul volto di molti. Più di ogni cosa, la sete di sapere. La sete di vivisezionare questo eroe di culto della scena alternativa italiana. Gli stessi che l'hanno giudicato con sufficienza -quelli di "E' impazzito", "E' un traditore"- presenziano all'evento. Le insegne luminose ("Incontro con Giovanni Lindo Ferretti e Germano Maccioni") attirano gli allocchi. Cercano di mostrarsi distaccati ma non possono: sono comunque eccitati. Eccitati di avere a pochi metri da loro l'Indesiderabile. Una volta terminata la visione, non importa che dicano "Alla fine è sempre stato coerente" o "Alla fine è davvero uscito fuori di senno". L'importante, per loro, è che stasera siano qui. Quando torneranno ai loro nidi avranno più diritto degli altri a parlare, in quanto testimoni diretti dell'evento.




Maccioni e Ferretti introducono. Giovanni non ha ancora visto il film, prende posto tra noi e il buio avvolge la sala. Ad ogni minuto che passa tiro sospiri di sollievo. La delusione è palpabile tra i "commensali". Qualcuno russa nelle ultime file. Si conclude il tutto con entusiasmo, gli applausi partono dai più anziani, le domande più interessanti scaturiscono dai cinefili, frequentatori abituali del Lumière. Un giovane gallo cedrone, infine, alza la mano. Pone traballante una domanda arzigogolata per niente inerente a questo documento "barbaro", antico. La conversione. La Chiesa. Mi aspetto, disincantato, un Ratzinger, infilato per caso, che per fortuna non viene tirato in ballo. Il regista e il protagonista -suo malgrado- della serata sono giustamente infastiditi. L'imbarazzo tenero, sincero, di Giovanni lascia il posto ad una delusione che deve provare giorno per giorno, da molti anni a questa parte. "Sono semplicemente tornato a casa, tornato alle orgini" -È così difficile da ca
pire? C'è davvero bisogno di chiedere chiarimenti al riguardo?- "Io non provo interesse per la Chiesa in quanto istituzione, per il marcio che, inevitabilmente c'è in essa... del resto è fatta dall'uomo. Ho un approccio alla fede totalmente bambino, vi stupirei da questo punto di vista".


Finisce con un po' di tristezza un'altra bellissima esperienza. Sarebbe stato bello discorrere di "Saga", sine dubio il disco più bello, più vero di Ferretti, sarebbe stato bello informarsi sugli intenti cinematografici di quest'opera equestre (visto che "Fedele alla Linea" sembra il preludio di qualcos'altro, qualcosa di ancor più epico), ma Ferretti, più di tutti, è condannato. Per quanto il tempo passerà, tra il suo pubblico persisteranno sempre coloro che aspettano di urlare "Lode a Mishima e a Majakovskij" (del Padiglione d'Oro e de La Nuvola in Calzoni, però, non c'è traccia!) o "Al principio era Pravda: parola verità" (senza riderne, per carità!).

Penso alla malinconia ancestrale insita nello sguardo di Ferretti e ascolto il suo meraviglioso "canto dei canti". Spesse volte sfugge, ma il Nostro, sull'Appennino di Pasolini, è nato pastore, da pastori. Pastore è tornato ad essere. Sta a noi non far la parte delle pecore.



Come bambino so sentirmi offeso, ma
tiro avanti senza dargli peso
non sempre so dire chi, perchè
ma cosa pretendere da un bimbo come me?

Miro ai lampioni che s'oppongono alla luna,

miro l'ombra che intralcia la fortuna.

Sto sdraiato nei campi nelle ore più belle
a pancia in su o giù a rimirar le stelle.

O godo, soffro l'amore
tendo la fionda ai lampioni che s'oppongono alla luna,
miro i prepotenti e i coglioni,
tiro alle ombre che intralciano la fortuna.

Come bambino vedo la politica un gioco da poco
si gioca per amore, obbligato
da tenere sotto controllo come il fuoco.

Sto sdraiato nei campi nelle ore più belle
a pancia in su o giù a rimirar le stelle.

lunedì 12 novembre 2012

Questa è un'esercitazione : Disciplinatha, Bologna (.09.XI.12.)


Scene di "Salò o le 120 giornate di Sodoma" si alternano a fotogrammi presi in prestito da "Amici di Maria De Filippi" e da "X-Factor". I volti di Anna Tatangelo, Simona Ventura e di una giovanissima Ambra Angiolini si confondono sugli schermi; un'ora più tardi saranno quelli di Roberto Saviano, Marco Travaglio e Caparezza. Stendardi rossi ospitano loghi della Apple al posto della svastica inclinata di matrice nazista. Il tappeto sonoro non cessa. Si è in balia di tutto ciò cui si assiste, muscoli paralizzati. Dal ritorno dei Disciplinatha non ne usciremo vivi.



Cristiano Santini lo sa e ci guarda con arguta compassione per tutta la durata del concerto. Il pretesto di presentare il cofanetto antologico ("Tesori della Patria", di autarchica manifattura) si rivela un vero e proprio regalo dedicato agli irriducibili e disciplinat(h)i fan del gruppo. Quindici anni sono trascorsi dall'ultima apparizione del collettivo e si ha la consapevolezza di essere parte integrante di un avvenimento storico. Lo sanno i seguaci di vecchia data, ma anche i neofiti, ipnotizzati dall'atmosfera che cala all'interno della struttura che ospita l'attesissima "reunion". Nonostante il Moonlight si consacri come festival a tema "dark-wave" da anni (solo quest'anno trasferitosi dal comune di Fano alla zona industriale di Bologna), questa sera è in atto una celebrazione unica, importante, che mette in secondo piano tutto il resto (anche i Fangs on Fur e gli O Children, a cui spetta il difficile compito di aprire le danze). Ad esaltare maggiormente il "senso di sacro" che emana l'evento è la bellissima mostra di Simone Poletti (Dinamo Innesco Rivoluzione, ideatore del cofanetto) dall'immaginario futurista mai così adeguato.




Sul palco ci sono tutti, o quasi. Dario Parisini e la sua chitarra, ruvida e distorta come prima (più di prima); Cristiano Santini, naturalmente (reduce dalla produzione del nuovissimo album di Miro Sassolini); Valeria Cevolani e Roberta Vicinelli; addirittura Marco Maiani (primissimo bassista del gruppo) e Simone Bellotti (batterista ai tempi di "Maciste contro tutti"). L'unico assente è Davide Albertazzi, che vive a Birminghan da anni. Per l'occasione accompagnano i nostri eroi un preparatissimo coro di Alpini giunti apposta da Trento (primissima sorpresa della serata) e il coro delle mondine di Bentivoglio (paese natìo del gruppo).

Si resta imbambolati dinanzi a queste inusuali collaborazioni e non si può che applaudire entusiasti la compostezza e lo spirito delle anziane e timide figure che popolano la scena. La genuinità delle mondine che intonano "Vi ricordate quel 18 Aprile?" mentre Santini le dirige austero e Parisini fa vibrare con prepotenza un'acidissima chitarra elettrica è commovente e strappa un sorriso di gratitudine.
Siamo fortunati ad essere qui.



Non resta nemmeno un minuto per riprendere fiato. Le luci bianche accecano, il rumore investe. Il tempo non sembra essere trascorso, nemmeno per i brani più classici. "Gli ottanta milioni di ricchi tedeschi grassi" evocati sembrano immagini da telegiornale della sera, eppure "Nazioni" fece la sua prima apparizione nel 1991. Non è questo che meraviglia: sorprende come abbiano potuto i Disciplinatha restare lontani dalle scene (da noi!) per così tanto tempo. Sorprende, mentre cantiamo a squarciagola "Up Patriots to Arms", rubata a Battiato per renderla più fredda e disincantata; mentre ascoltiamo "Crisi di valori", la stessa di cui volti incartapecoriti e finti giovani ciarlano in spazi televisivi più o meno disgustosi; mentre ci appropriamo di "A noi! A noi! Addis Abeba!", il ritornello che terrorizza, come custodi di un segreto elitario ma opprimente. 
Sorprende, perché della loro spietatezza c'è bisogno, oggi più di ieri.



La bellezza dei Disciplinatha risiede nel contrastare con meravigliosa crudeltà l'infantile concezione del "giusto". Bellezza nel ridicolizzare "l'Impegnato", il portatore sano di kefiah, il centro sociale, i democratici, la stampa, CasaPound: i collezionisti di alibi. Con ardore denso di luoghi comuni, queste identità non si accorgono di indossare "altre" divise, radicate nel proprio ragionare depauperato di giudizio critico, privo di sfumatura alcuna.

Persone che non credono di salvare il mondo, ma che hanno disperato bisogno di dare un senso alla propria esistenza attraverso il senso di appartenenza. Marciano e discorrono di cose futili, circoscrivono musica, cinema e letteratura alle "idee" di cui si fanno portavoce. Creano tabù e non osano superare le colonne d'Ercole del giudizio, temendo di restare soli.


Disciplinatha giudica, con la consapevolezza dettata dalla ricerca, sventolando lo stendardo del Male che l'animale sociale tende a riconoscere come tale. 

Disciplinatha punta il dito e disprezza chi non capirà mai che la Terra, se sopravviverà, lo farà senza l'uomo.
Disciplinatha critica e nega chi si fa portatore di principi e dileggia chi si veste di verità, mascherandola con falsa morale.


Si annega nella bellezza dell'atroce, dichiarando guerra a chi sfugge il lutto delle coscienze, della cultura, dell'esistenza. Agli inconsapevoli.



"Sarà una forza gravitazionale a forzare i volti,

costringere le schiene,
giù,
verso il basso,
giù...

Nel caos dei non-uomini mi rifiuto di vivere,

con i lupi delle piazze mi rifiuto di ululare,
tra gli squali delle valli mi rifiuto di nuotare,
giù per la corrente delle schiene piegate..."



  • Solo Alpini/Signore delle cime/La Julia (Coro Alpino di Monte Calisio)
  • Bandiera nera (con il Coro Alpino di Monte Calisio)
  • Lo stato delle cose
  • Nazioni
  • Milizia
  • Crisi di valori
  • Vi ricordate quel 18 Aprile? (con il Coro delle Mondine di Bentivoglio)
  • Sei stato tu a decidere
  • Up Patriots to Arms
  • Esilio
  • Addis Abeba

    Qui il servizio di Rai 3 (Emilia Romagna)



    (Foto: gregorsamsaestmort)

martedì 23 ottobre 2012

All in Good Time : Dead Can Dance, Milano (.19.X.12.)


Sbarco alla stazione "Greco Pirelli" di Milano e subito mi investe il grigiore, quello fluorescente del cielo ottobrino che incombe su tutto il quartiere della Bicocca, amalgamatosi con i colori spenti dei palazzi che mi circondano. Odio Milano. Intendiamoci, amo la sua freddezza, il suo eterno distacco di metropoli, ma riesce sempre a disgustarmi con la sua estetica, con le sue tonnellate di squallida ed opprimente modernità.

L'Arcimboldi è proprio all'altro lato della strada. La sua struttura così squadrata, l'evidente ed estremo tentativo di costruire un teatro nuovo, proiettato verso un futuro aerodinamico, mi rendono prevenuto. Mi siedo sul marciapiede a mangiare un panino, rassegnato già alla città, al teatro, alla zona, quand'ecco venirmi incontro Brendan Perry. Cammina spedito, come sempre accigliato, le mani affondate nelle tasche e la bocca serrata. Quando realizzo chi è l'uomo che passeggia verso di me quasi rischio di soffocarmi con il prosciutto.

Mi alzo, spolvero la giacca cercando di liberarmi dalle briciole di pane e timidamente gli tendo la mano, farfugliando qualcosa sul fatto che ho il box di Towards the Within nello zaino e che mi piacerebbe che lo firmasse. Brendan accetta e mentre cerco impacciato la scatola gli dico quanto "Ark" mi abbia cambiato la vita, quanto sia meraviglioso "Anastasis" e quanto non lo facessi così alto, in realtà. Tutti cliché che avrei evitato con tutto me stesso se solo fossi stato leggermente più lucido. Sorride (non avendo mai visto foto o video in cui abbozzasse anche solo una smorfia, la cosa mi destabilizza), mi corregge la pronuncia di "Ark" (AOArk) e mi ringrazia per quei complimenti così sterili, che chiunque avrebbe potuto rivolgergli.

Dopo quelli che mi sembrano pochi secondi lo lascio fuggire a fatica. Lo guardo sparire lungo la strada e chiudo in un cassetto del mio cervello l'ultimo tenero e malinconico sorriso che mi ha rivolto. Mi siedo, la fame è sparita. Sarà un cliché anche questo, ma Milano fa meno schifo.


Col calare della sera, una volta spalancato l'ingresso, anche l'Arcimboldi mi sembra più bello. Sarà l'aspettativa di vedere -finalmente- i Dead Can Dance dal vivo, ma la sala non troppo grande, le luci laterali emanate da quelli che sembrano tanti abat-jour mi rilassano e sedano quell'ansia che mi assale normalmente ai concerti, quando so che sto per assistere a qualcosa di estremamente importante. Importante per me, s'intende.




David Kuckhermann fa il suo ingresso in sordina, mentre la gente cerca pigramente il proprio posto e la sala tutta, lentamente, si riempie. Con gentilezza estrema si presenta, mostra e descrive l'"Hang" -la percussione svizzera di metallo che si appresta a suonare- e, nonostante il vocio ancora prepotente del pubblico, riesce a riscaldare l'atmosfera con spiccata delicatezza.

La voce registrata che annuncia l'inizio dello spettacolo (e che raccomanda freddamente di spegnere telefonini, fotocamere e similia) riecheggia in sala per ben tre volte dopo il congedo di Kuckhermann e il clima di rilassatezza instaurato dal bravissimo percussionista si sgretola in pochi minuti. Il variegatissimo pubblico (composto da menti canuti, creste cotonate, giacche di velluto e tuniche nere) mostra la sua impazienza fischiando e sbraitando. L'attesa termina con "Children of the Sun".

Non appena Brendan Perry e Lisa Gerrard calcano il palcoscenico, la platea, letteralmente, esplode e vengo schiacciato dal peso di un'unica salda consapevolezza: di un concerto dei Dead Can Dance non si può parlare. Tanti amici, all'uscita, hanno dispensato frasi come "Sono rimasto senza parole", "È stato indescrivibile", "Devo tornare sul Pianeta Terra" ed io li ho compresi tutti facilmente, giudicandoli mai banali. Non so bene cosa sia accaduto in quelle due ore, ma è stato qualcosa che non rivivrà attraverso accurate descrizioni e minuziose osservazioni di tipo critico. Abbiamo assistito alla costruzione di un mosaico prezioso, composto con un'accuratezza che non ha e che non avrà eguali. 



La coerenza di eseguire l'ultimo album in toto risulta disarmante. Ero consapevole che "Anastasis" fosse un capolavoro, ma ascoltarlo dal vivo mi proietta direttamente nella copertina del disco, nei campi d'oppio lì raffigurati. Le canzoni tradizionali proposte da Brendan ("Lamma Bada" e "Ime Prezakias"), del resto, fanno capolino al momento giusto, come risposta agli episodi che più esaltano i vocalizzi di Lisa Gerrard ("Kiko", "The Host of Seraphim"). Quando "Amnesia" finisce, accade l'inaspettato. E' già il turno di "Sanvean". Non ero pronto: scoppio in lacrime. Mi è capitato di piangere ai concerti, ma non così a lungo. Singhiozzo e non riesco a smettere: gemo su "Nierika", su "Opium", sul nuovo, bellissimo arrangiamento di "Now We Are Free". Quando l'ipnotico yangqin di "Dreams Made Flesh" smette di vibrare e Brendan attacca "Song to the Siren" sono stremato. E' come se ogni canzone fosse troppo maestosa; come se mi entrasse dalle orecchie una piccola supernova e potessi espellerla solo attraverso il pianto. Probabilmente è questo l'effetto di un'autentica catarsi!

A "Return of the She-King" (la mia preferita di "Anastasis") segue "Rising of the Moon", il momento dell'ultimo abbraccio vocale di Lisa. L'acuto russare proveniente dalle retrovie e i "soldatini" dell'Arcimboldi intenti a rimproverare il pubblico armato di fotocamera spezzano un po' l'incanto dell'Addio, ma non impediscono alla Gerrard di congedarsi con un mormorato "You're beautiful, I love you" che fa sussultare l'intero teatro.

Per inerzia mi dirigo verso l'atrio: è il momento dei saluti, dello scambio di opinioni, ma, per una volta nella vita, non abbiamo voglia di esprimerci. Non sentiamo il bisogno di analizzare, di tirare le somme, di discutere. Abbiamo un po' tutti gli occhi lucidi e un nodo alla gola che farà fatica a sciogliersi. Quando trovo la forza di condividere con altri l'esperienza dell'incontro con Brendan Perry qualcuno mi chiede: "Non vorresti incontrare anche Lisa Gerrard? Potremmo attendere che esca..."
La proposta stranamente mi paralizza, saprei benissimo come rispondere, ma le labbra formulano: "No, è troppo". Sì, sarebbe stato davvero troppo per una sola sera.
  • Children of the Sun
  • Anabasis
  • Rakim
  • Kiko
  • Lamma Bada
  • Agape
  • Amnesia
  • Sanvean
  • Nierika
  • Opium
  • The Host of Seraphim
  • Ime Prezakias
  • Now We Are Free
  • All in Good Time
  • The Ubiquitous Mr. Lovegrove
  • Dreams Made Flesh
  • Song to the Siren
  • Return of the She-King
  • Rising of the Moon

(Foto: gregorsamsaestmort)

martedì 2 ottobre 2012

State buoni, se potete.





A meno di cinque ore dall'evento, scopro che Angelo Branduardi suona con l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in occasione della festa di S. Petronio.

E' un evento religioso/istituzionale, c'è un'orchestra e Piazza Maggiore ha un'acustica piuttosto chiusa, ergo non dovrebbero esserci grossi disagi (non quelli di "Piazza Verdi Estate").


Sono le 21 e 20, manca poco all'inizio del concerto e spunta sul palco questa "zinnona" ben stretta in un vestito rosa shocking che la rendeva molto simile alla mortadella senza pistacchi. Credo fosse un personaggio televisivo o qualcuno di "noto", perchè la circondava un'aura di ingente stupidità. "Salve Bologna, anche se ormai sono lontana noto sempre con piacere che siete tantissimi!" Stavo già interrogandomi sul senso logico della frase quando ho abbandonato ogni speranza al suono di: "Per me presentare quest'uomo rappresenta una grande emozione; ricordo ancora quando ero piccola, del topolino... che il padre... comprò alla fiera... e arrivò il gatto... che si mangiò il topolino... poi il cane..."

Alle 21 e 30 spaccate la maggiorata sparisce e prende il suo posto Renato Serio ed è proprio la sua presenza a rendere il concerto unico. Per chi non lo sapesse, il Signor Serio è stato l'autore degli arrangiamenti orchestrali dei primi due episodi del fortunato progetto "Futuro antico", l'approccio classico di Branduardi alla musica medievale. Ha altresì composto l'inno di Forza Italia, ma questa è un'altra storia.





Si comincia con tre canti religiosi (rivisitazioni ospitate proprio nel bellissimo e maestoso "Futuro Antico I") per poi passare direttamente ai classici. Mi scappa la lacrimuccia, perchè Branduardi non lo vedevo dal vivo dal 2000 (era il tour de L'Infinitamente Piccolo) e perchè inevitabilmente la sua musica coincide con qualcosa di ancestrale. I mondi che dipinge sono inspiegabilmente radicati nel nostro immaginario, sempre e comunque. Inoltre non è così usuale sentire e vedere il menestrello adiuvato da un'intera orchestra. Lo si apprezza a maggior ragione che non si tratti dell'ennesimo pomposo tentativo di un autore affermato di rinverdire i propri brani: è un episodio isolato e bisogna goderne fino in fondo.



Dopo la personalissima dedica a Yeats ("Innisfree") e "Ninna Nanna", il Nostro imbraccia la chitarra e ci regala alcuni dei suoi brani migliori, "Tango", "La luna" e "Confessioni di un malandrino" conditi da qualche "perla di saggezza". Alla richiesta di "qualche canzone d'amore" il "bardo" si gratta il capo: "Ha ragione, è un po' di tempo che non ne suono. Non ho scritto molte canzoni d'amore, infatti volevo andare dall'andrologo. Vabbè, ci son tanti miei colleghi che fanno solo quelle... ne ho scritte poche nella mia vita, eppure ho perso la testa molte volte. Dovete diffidare degli artisti che cantano la quiete, perchè sono inquieti... e molto spesso i metallari sono seminaristi. Confesso che ho vissuto."



Era inevitabile che Branduardi portasse con sé un po' di classe. Quando mi avvicino ad un gruppetto di persone al lato della piazza, noto la sua testa riccioluta spuntare da un tendone allestito in prossimità del palco. Non è difficile immaginare il conseguente assalto da parte del pubblico -non- pagante. "Dovete perdonarmi, ma non mi capita spesso di fare concerti del genere. Siate buoni: se dovessi concedere una foto ad uno solo di voi farei torto a tanti altri che la desiderano e che non potrei soddisfare, per quanto sono stremato. Grazie della comprensione, sarà per la prossima volta: l'adrenalina fa sentire i suoi effetti, ora." Ed ecco le persone ordinate sorridergli, stringergli la mano, riporre pennarelli, bloc notes e dischi nelle borse.
Il suo sorriso è disarmante e fa bene. Fa così bene.


  • Los set goys
  • Gaudete/Personent Hodie
  • Il Signore di Baux
  • Ballo in Fa Diesis Minore
  • Alla fiera dell'Est
  • La pulce d'acqua
  • Cogli la prima mela
  • Innisfree, l'isola sul lago
  • Ninna nanna
  • Confessioni di un malandrino
  • La luna
  • La donna della sera
  • Tango
  • Sotto il tiglio
  • Solo di violino/Alla fiera dell'Est (Reprise)



(Foto: gregorsamsaestmort)


P.S: Pago il tributo al caro amico Salvatore Vastano per avermi, in queste ultime settimane, rammentato spesso della migliore scena di "Vogliamo i colonnelli"


lunedì 1 ottobre 2012

Prova!


Mi ero seduto. Vidi alcune persone inginocchiarsi. Per rispetto nei confronti di Jean, e per non dare nell'occhio, volli inginocchiarmi anch'io. Meccanicamente, infilai la mano nella tasca della giacca e vi incontrai la mia scatoletta di fiammiferi. Era vuota. Invece di buttarla, inavvertitamente l'avevo rimessa in tasca. "Ho in tasca una scatoletta di fiammiferi."
Era abbastanza naturale che in q
uel momento mi ricordassi di un paragone che un giorno aveva fatto un ragazzo in carcere, parlandomi dei pacchi concessi ai prigionieri: "Hai diritto a un pacco alla settimana. Una bara o una scatola di fiammiferi è lo stesso, è sempre un pacco".
"Certo. Una scatola di fiammiferi o una bara è lo stesso" mi dissi. "Ho una piccola bara in tasca."


(Jean Genet, 
Pompes Funèbres)