martedì 23 ottobre 2012

All in Good Time : Dead Can Dance, Milano (.19.X.12.)


Sbarco alla stazione "Greco Pirelli" di Milano e subito mi investe il grigiore, quello fluorescente del cielo ottobrino che incombe su tutto il quartiere della Bicocca, amalgamatosi con i colori spenti dei palazzi che mi circondano. Odio Milano. Intendiamoci, amo la sua freddezza, il suo eterno distacco di metropoli, ma riesce sempre a disgustarmi con la sua estetica, con le sue tonnellate di squallida ed opprimente modernità.

L'Arcimboldi è proprio all'altro lato della strada. La sua struttura così squadrata, l'evidente ed estremo tentativo di costruire un teatro nuovo, proiettato verso un futuro aerodinamico, mi rendono prevenuto. Mi siedo sul marciapiede a mangiare un panino, rassegnato già alla città, al teatro, alla zona, quand'ecco venirmi incontro Brendan Perry. Cammina spedito, come sempre accigliato, le mani affondate nelle tasche e la bocca serrata. Quando realizzo chi è l'uomo che passeggia verso di me quasi rischio di soffocarmi con il prosciutto.

Mi alzo, spolvero la giacca cercando di liberarmi dalle briciole di pane e timidamente gli tendo la mano, farfugliando qualcosa sul fatto che ho il box di Towards the Within nello zaino e che mi piacerebbe che lo firmasse. Brendan accetta e mentre cerco impacciato la scatola gli dico quanto "Ark" mi abbia cambiato la vita, quanto sia meraviglioso "Anastasis" e quanto non lo facessi così alto, in realtà. Tutti cliché che avrei evitato con tutto me stesso se solo fossi stato leggermente più lucido. Sorride (non avendo mai visto foto o video in cui abbozzasse anche solo una smorfia, la cosa mi destabilizza), mi corregge la pronuncia di "Ark" (AOArk) e mi ringrazia per quei complimenti così sterili, che chiunque avrebbe potuto rivolgergli.

Dopo quelli che mi sembrano pochi secondi lo lascio fuggire a fatica. Lo guardo sparire lungo la strada e chiudo in un cassetto del mio cervello l'ultimo tenero e malinconico sorriso che mi ha rivolto. Mi siedo, la fame è sparita. Sarà un cliché anche questo, ma Milano fa meno schifo.


Col calare della sera, una volta spalancato l'ingresso, anche l'Arcimboldi mi sembra più bello. Sarà l'aspettativa di vedere -finalmente- i Dead Can Dance dal vivo, ma la sala non troppo grande, le luci laterali emanate da quelli che sembrano tanti abat-jour mi rilassano e sedano quell'ansia che mi assale normalmente ai concerti, quando so che sto per assistere a qualcosa di estremamente importante. Importante per me, s'intende.




David Kuckhermann fa il suo ingresso in sordina, mentre la gente cerca pigramente il proprio posto e la sala tutta, lentamente, si riempie. Con gentilezza estrema si presenta, mostra e descrive l'"Hang" -la percussione svizzera di metallo che si appresta a suonare- e, nonostante il vocio ancora prepotente del pubblico, riesce a riscaldare l'atmosfera con spiccata delicatezza.

La voce registrata che annuncia l'inizio dello spettacolo (e che raccomanda freddamente di spegnere telefonini, fotocamere e similia) riecheggia in sala per ben tre volte dopo il congedo di Kuckhermann e il clima di rilassatezza instaurato dal bravissimo percussionista si sgretola in pochi minuti. Il variegatissimo pubblico (composto da menti canuti, creste cotonate, giacche di velluto e tuniche nere) mostra la sua impazienza fischiando e sbraitando. L'attesa termina con "Children of the Sun".

Non appena Brendan Perry e Lisa Gerrard calcano il palcoscenico, la platea, letteralmente, esplode e vengo schiacciato dal peso di un'unica salda consapevolezza: di un concerto dei Dead Can Dance non si può parlare. Tanti amici, all'uscita, hanno dispensato frasi come "Sono rimasto senza parole", "È stato indescrivibile", "Devo tornare sul Pianeta Terra" ed io li ho compresi tutti facilmente, giudicandoli mai banali. Non so bene cosa sia accaduto in quelle due ore, ma è stato qualcosa che non rivivrà attraverso accurate descrizioni e minuziose osservazioni di tipo critico. Abbiamo assistito alla costruzione di un mosaico prezioso, composto con un'accuratezza che non ha e che non avrà eguali. 



La coerenza di eseguire l'ultimo album in toto risulta disarmante. Ero consapevole che "Anastasis" fosse un capolavoro, ma ascoltarlo dal vivo mi proietta direttamente nella copertina del disco, nei campi d'oppio lì raffigurati. Le canzoni tradizionali proposte da Brendan ("Lamma Bada" e "Ime Prezakias"), del resto, fanno capolino al momento giusto, come risposta agli episodi che più esaltano i vocalizzi di Lisa Gerrard ("Kiko", "The Host of Seraphim"). Quando "Amnesia" finisce, accade l'inaspettato. E' già il turno di "Sanvean". Non ero pronto: scoppio in lacrime. Mi è capitato di piangere ai concerti, ma non così a lungo. Singhiozzo e non riesco a smettere: gemo su "Nierika", su "Opium", sul nuovo, bellissimo arrangiamento di "Now We Are Free". Quando l'ipnotico yangqin di "Dreams Made Flesh" smette di vibrare e Brendan attacca "Song to the Siren" sono stremato. E' come se ogni canzone fosse troppo maestosa; come se mi entrasse dalle orecchie una piccola supernova e potessi espellerla solo attraverso il pianto. Probabilmente è questo l'effetto di un'autentica catarsi!

A "Return of the She-King" (la mia preferita di "Anastasis") segue "Rising of the Moon", il momento dell'ultimo abbraccio vocale di Lisa. L'acuto russare proveniente dalle retrovie e i "soldatini" dell'Arcimboldi intenti a rimproverare il pubblico armato di fotocamera spezzano un po' l'incanto dell'Addio, ma non impediscono alla Gerrard di congedarsi con un mormorato "You're beautiful, I love you" che fa sussultare l'intero teatro.

Per inerzia mi dirigo verso l'atrio: è il momento dei saluti, dello scambio di opinioni, ma, per una volta nella vita, non abbiamo voglia di esprimerci. Non sentiamo il bisogno di analizzare, di tirare le somme, di discutere. Abbiamo un po' tutti gli occhi lucidi e un nodo alla gola che farà fatica a sciogliersi. Quando trovo la forza di condividere con altri l'esperienza dell'incontro con Brendan Perry qualcuno mi chiede: "Non vorresti incontrare anche Lisa Gerrard? Potremmo attendere che esca..."
La proposta stranamente mi paralizza, saprei benissimo come rispondere, ma le labbra formulano: "No, è troppo". Sì, sarebbe stato davvero troppo per una sola sera.
  • Children of the Sun
  • Anabasis
  • Rakim
  • Kiko
  • Lamma Bada
  • Agape
  • Amnesia
  • Sanvean
  • Nierika
  • Opium
  • The Host of Seraphim
  • Ime Prezakias
  • Now We Are Free
  • All in Good Time
  • The Ubiquitous Mr. Lovegrove
  • Dreams Made Flesh
  • Song to the Siren
  • Return of the She-King
  • Rising of the Moon

(Foto: gregorsamsaestmort)

martedì 2 ottobre 2012

State buoni, se potete.





A meno di cinque ore dall'evento, scopro che Angelo Branduardi suona con l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in occasione della festa di S. Petronio.

E' un evento religioso/istituzionale, c'è un'orchestra e Piazza Maggiore ha un'acustica piuttosto chiusa, ergo non dovrebbero esserci grossi disagi (non quelli di "Piazza Verdi Estate").


Sono le 21 e 20, manca poco all'inizio del concerto e spunta sul palco questa "zinnona" ben stretta in un vestito rosa shocking che la rendeva molto simile alla mortadella senza pistacchi. Credo fosse un personaggio televisivo o qualcuno di "noto", perchè la circondava un'aura di ingente stupidità. "Salve Bologna, anche se ormai sono lontana noto sempre con piacere che siete tantissimi!" Stavo già interrogandomi sul senso logico della frase quando ho abbandonato ogni speranza al suono di: "Per me presentare quest'uomo rappresenta una grande emozione; ricordo ancora quando ero piccola, del topolino... che il padre... comprò alla fiera... e arrivò il gatto... che si mangiò il topolino... poi il cane..."

Alle 21 e 30 spaccate la maggiorata sparisce e prende il suo posto Renato Serio ed è proprio la sua presenza a rendere il concerto unico. Per chi non lo sapesse, il Signor Serio è stato l'autore degli arrangiamenti orchestrali dei primi due episodi del fortunato progetto "Futuro antico", l'approccio classico di Branduardi alla musica medievale. Ha altresì composto l'inno di Forza Italia, ma questa è un'altra storia.





Si comincia con tre canti religiosi (rivisitazioni ospitate proprio nel bellissimo e maestoso "Futuro Antico I") per poi passare direttamente ai classici. Mi scappa la lacrimuccia, perchè Branduardi non lo vedevo dal vivo dal 2000 (era il tour de L'Infinitamente Piccolo) e perchè inevitabilmente la sua musica coincide con qualcosa di ancestrale. I mondi che dipinge sono inspiegabilmente radicati nel nostro immaginario, sempre e comunque. Inoltre non è così usuale sentire e vedere il menestrello adiuvato da un'intera orchestra. Lo si apprezza a maggior ragione che non si tratti dell'ennesimo pomposo tentativo di un autore affermato di rinverdire i propri brani: è un episodio isolato e bisogna goderne fino in fondo.



Dopo la personalissima dedica a Yeats ("Innisfree") e "Ninna Nanna", il Nostro imbraccia la chitarra e ci regala alcuni dei suoi brani migliori, "Tango", "La luna" e "Confessioni di un malandrino" conditi da qualche "perla di saggezza". Alla richiesta di "qualche canzone d'amore" il "bardo" si gratta il capo: "Ha ragione, è un po' di tempo che non ne suono. Non ho scritto molte canzoni d'amore, infatti volevo andare dall'andrologo. Vabbè, ci son tanti miei colleghi che fanno solo quelle... ne ho scritte poche nella mia vita, eppure ho perso la testa molte volte. Dovete diffidare degli artisti che cantano la quiete, perchè sono inquieti... e molto spesso i metallari sono seminaristi. Confesso che ho vissuto."



Era inevitabile che Branduardi portasse con sé un po' di classe. Quando mi avvicino ad un gruppetto di persone al lato della piazza, noto la sua testa riccioluta spuntare da un tendone allestito in prossimità del palco. Non è difficile immaginare il conseguente assalto da parte del pubblico -non- pagante. "Dovete perdonarmi, ma non mi capita spesso di fare concerti del genere. Siate buoni: se dovessi concedere una foto ad uno solo di voi farei torto a tanti altri che la desiderano e che non potrei soddisfare, per quanto sono stremato. Grazie della comprensione, sarà per la prossima volta: l'adrenalina fa sentire i suoi effetti, ora." Ed ecco le persone ordinate sorridergli, stringergli la mano, riporre pennarelli, bloc notes e dischi nelle borse.
Il suo sorriso è disarmante e fa bene. Fa così bene.


  • Los set goys
  • Gaudete/Personent Hodie
  • Il Signore di Baux
  • Ballo in Fa Diesis Minore
  • Alla fiera dell'Est
  • La pulce d'acqua
  • Cogli la prima mela
  • Innisfree, l'isola sul lago
  • Ninna nanna
  • Confessioni di un malandrino
  • La luna
  • La donna della sera
  • Tango
  • Sotto il tiglio
  • Solo di violino/Alla fiera dell'Est (Reprise)



(Foto: gregorsamsaestmort)


P.S: Pago il tributo al caro amico Salvatore Vastano per avermi, in queste ultime settimane, rammentato spesso della migliore scena di "Vogliamo i colonnelli"


lunedì 1 ottobre 2012

Prova!


Mi ero seduto. Vidi alcune persone inginocchiarsi. Per rispetto nei confronti di Jean, e per non dare nell'occhio, volli inginocchiarmi anch'io. Meccanicamente, infilai la mano nella tasca della giacca e vi incontrai la mia scatoletta di fiammiferi. Era vuota. Invece di buttarla, inavvertitamente l'avevo rimessa in tasca. "Ho in tasca una scatoletta di fiammiferi."
Era abbastanza naturale che in q
uel momento mi ricordassi di un paragone che un giorno aveva fatto un ragazzo in carcere, parlandomi dei pacchi concessi ai prigionieri: "Hai diritto a un pacco alla settimana. Una bara o una scatola di fiammiferi è lo stesso, è sempre un pacco".
"Certo. Una scatola di fiammiferi o una bara è lo stesso" mi dissi. "Ho una piccola bara in tasca."


(Jean Genet, 
Pompes Funèbres)